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Immagine del redattoreGiornalino Uccellis

Amleto

Leggere o non leggere l’Amleto di Shakespeare, questo è il dilemma? In realtà no. Amleto è l’opera letteraria più nota in lingua inglese ma è anche una delle più sconcertanti. Tutti pensiamo, una volta letta la tragedia, di conoscerla intimamente, ma quando proviamo a mettere in parole questa conoscenza scopriamo che non è affatto così. Qui sta il fascino e la difficoltà dell’Amleto. Lo stesso principe di Danimarca non è più vicino a conoscere se stesso alla fine di quanto non lo sia all’inizio, e questo non perché sia imperfetto, ma perché è umano: non possiamo mai conoscere o capire completamente noi stessi, non importa quanto ci sforziamo. Solo gli altri possono vederci “come siamo”, e solo dopo la nostra morte. Eroe del dubbio, innamorato che non ama, vendicatore che non prova lo sdegno di Medea o la rabbia di Oreste, Amleto è l’eroe che può ma non sa di volere, capace di dubitare di tutto. In lui c’è tutto l’essere umano, e questo è, a mio parere, un buon motivo per leggerlo e, magari, anche rileggerlo. Nel celebre monologo nell’atto III scena I della tragedia shakespeariana, Amleto si rivolge a se stesso ponendosi una questione: essere o non essere. Questo è di fatto un interrogativo che trova come soluzione due alternative: continuare a vivere soffrendo e tollerando le avversità proprie dell’esistenza oppure porre fine a tutto andando incontro alla morte e abbandonandosi al nulla. Amleto dichiara che la seconda alternativa sarebbe una fine che egli stesso desidera ardentemente. Tuttavia vi è un ostacolo, ossia la capacità umana di riflettere, la quale paralizza l’individuo nel momento dell’azione. L’ignoto dopo la morte è dunque fortemente temuto dall’uomo che preferisce sopportare i torti dell’oppressore, gli oltraggi dei superbi, le sofferenze dell’amore, gli indugi della legge, nonché l’insolenza dei potenti. La morte viene inoltre paragonata da Shakespeare a un sonno che pone fine agli strazi del cuore e alle battaglie cui la carne deve far fronte. L’unica opposizione rimane il sogno che, dopo aver soppresso gli affanni della vita mortale, può comunque sopraggiungere e dissuadere la nostra mente facendoci indugiare. Non per amore della vita, dice Amleto, continuiamo a vivere, bensì per timore di ciò che verrà dopo. Dal punto di vista linguistico questo passo presenta un'alternanza di domande, ad esempio quando il protagonista si chiede chi sopporterebbe i colpi e le frecce della fortuna oltraggiosa invece di «saldare il tutto con un semplice stiletto», di dubbi e di affermazioni, quali «E con un sonno porre fine agli strazi del cuore... una fine da desiderarsi devotamente», che sottolineano come l’interiorità del personaggio si interroga, si vaglia e si scopre. Da un lato questa strategia espressiva induce l’attore di turno chiamato a impersonare tale franto personaggio a dover immaginare e mettere in atto tutte queste riflessioni, una per una, da quelle altalenanti a quelle più salde; dall'altro lo spettatore è portato a immedesimarsi e a percepire egli stesso il susseguirsi di idee e pensieri. Il monologo trova così un dinamismo corroborato dalla presenza di una forza che spinge e da una che frena tirando dalla parte opposta. La tragedia di Shakespeare ha il dono di farci riflettere sulla nostra condizione umana, sui nostri limiti, sulle nostre incertezze, sul valore e sul senso della vita. Un famoso critico letterario, Gabriele Baldini, sostiene che con Amleto si proclama la scomparsa dell’uomo rinascimentale, quell’uomo che nella sua interezza pareva tanto proporzionato, tanto equilibrato e ragionevole da sentirsi al centro dell’universo. Amleto può dunque essere considerato un personaggio che incarna lo spirito proprio del Seicento in quanto consapevole della frammentarietà di fronte alla sublime illusione rinascimentale. Il protagonista di questa tragedia simboleggia dunque colui che dubita, l’uomo lacerato e paralizzato dal dubbio. Inoltre Amleto, così come il Don Quijote di Cervantes, incarna una forma di eroismo tragico di gusto moderno; è l’eroe che prende atto di una realtà sovvertita che non gli appartiene più: infatti i confini di quanto si credeva certo e consolidato, la famiglia, si sono drammaticamente sfaldati: lo zio Claudio ha ucciso il padre di Amleto, ne ha usurpato il trono e infine ha sposato la regina, madre di Amleto. È proprio dai dialoghi con quest’ultima che emergono le doppie forze che si scontrano nell’animo del figlio: la regina cerca di abbassare il livello della tensione che si crea, tuttavia il fatto che ella si schieri dalla parte dello zio è per il figlio come ricevere incessanti pugnalate. Le battute del protagonista hanno però un fattore di controresistenza dovuto alla sua sensibilità e all’amore che egli prova nei confronti della madre. Il nuovo spirito che pervade il secolo di Amleto e che lo differenzia dall’età umanistico rinascimentale trova supporto nei Pensieri del filosofo francese Blaise Pascal, vissuto nella prima metà del Seicento. Le analisi di Pascal nascono, non a caso, dopo la dimostrazione di Galileo della validità scientifica della teoria eliocentrica elaborata da Copernico. Lo scienziato italiano aveva così spodestato la Terra conosciuta dall'uomo, nonché l’uomo stesso, da una centralità precedentemente ritenuta indiscutibile. La riflessione di Pascal dà dunque voce al sentimento di spaesamento e di perdita di centro proprio del Seicento. Così egli attribuisce all’essere umano una condizione di creatura minima e insignificante, se posta a confronto con l’immensità della natura e con l’infinità dell’universo. Questa nuova dimensione si rispecchia pienamente nell’emblematica figura di Amleto che non può non fungere da specchio anche per l’uomo moderno.


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