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Echi di-versi

Interpretazioni e suggestioni: letture personali di alcune famose poesie.

San Martino, G. Carducci, Rime Nuove, 1887

San Martino

La nebbia agl’irti colli

piovigginando sale,

e sotto il maestrale

urla e biancheggia il mar;


ma per le vie del borgo

dal ribollir de’ tini

va l’aspro odor de i vini

l’anime a rallegrar.


Gira su’ ceppi accesi

lo spiedo scoppiettando:

sta il cacciator fischiando

sull’uscio a rimirar


tra le rossastre nubi

stormi d’uccelli neri,

com’esuli pensieri,

nel vespero migrar.


Nella poesia “San Martino”, Giosuè Carducci, ci fa capire quanto sia triste l'autunno preludio della stagione fredda delle piogge, ma allo stesso tempo

nell'aria c'è un nuovo profumo, di vino, e nelle case si sentono crepitare i

camini accesi. Sono contrapposti un grande senso di inquietudine e malinconia legati al paesaggio, all'allegria che si sente nel piccolo paese.

Questa poesia mi fa ripensare a quando ero piccola. I miei nonni vivevano in

una casa in aperta campagna e ogni volta che io e mio fratello andavamo a

trovarli, era una festa.


In autunno, di solito, andavo a dormire da loro il sabato. La sera mangiavamo tutti insieme, si vedevano dei tramonti meravigliosi e poi solo la luce della luna. Quando andavamo a dormire ci addormentavamo sentendo i rumori della natura: il ticchettio della pioggia se pioveva o il verso del gufo che iniziava la sua giornata...

Ancora adesso mi ricordo la sensazione di uscire sul porticato e sentire l'aria fredda pungere le gambe, correvo a piedi nudi sul prato con le goccioline d'acqua che mi raffreddavano dolcemente i piedi, intorno a me c’erano solo campi molto vasti, dove gli uccelli andavano a scovare il loro pasto, alberi da frutto e vigne, con i grappoli d’uva violacei ancora appesi ai tralicci.

Molti stormi di uccelli passavano sopra le nostre teste, come se stessero cercando un posto migliore dove andare a vivere, magari in un posto più caldo, ma tutti sapevano che prima o poi tornavano. Alcune volte sognavo di volare, di essere parte di loro, per visitare molti posti e vedere il mondo dall'alto.

Quando avevo circa sette anni, mio nonno aveva comprato delle damigiane di vino e mi disse che doveva imbottigliare ed aveva bisogno del mio aiuto, così, sprizzando gioia da tutti i pori, mi sono armata di vestiti che non utilizzavo più e abbiamo iniziato a riempire tutte quelle bottiglie verdastre. Arrivati alla fine, eravamo tutti ricoperti dall’aspro odore del vino ed è proprio questa sensazione che mi ha ricordato la poesia di Carducci.

Tombacco Cecilia

2A LSI


Pianto Antico, G. Carducci, 1871

In “Pianto antico” Giosuè Carducci compara il giardino dai colori brillanti nel quale ha molti ricordi del figlio con il vuoto straziante che prova dopo la morte di quest’ultimo.

Il poeta si rivolge direttamente al figlio e inizialmente ricorda di quando era piccolo e tendeva la mano al melograno che ora è in fiore, gli racconta di come il suo ricordo non riesca a ravvivare l’orto deserto. Le ultime due strofe, invece, sono concentrate sul dolore provato da Carducci; egli è straziato dalla morte del figlio, la vita gli pare priva di significato, poiché il suo significato era il pargolo. Fa anche una riflessione su dove il bambino si trovi, nelle fredde e buie braccia della morte, dove il sole, l’allegria, i colori e il calore del giardino nel quale ha trascorso la sua infanzia non sono più in grado di raggiungerlo.

La parte della poesia che mi ha colpita di più è l’ultima strofa. In questa quartina sono presenti due anafore che rafforzano ciò che vuole esprimere il poeta; ad una prima lettura sembra riferirsi all’oltretomba, “la terra fredda” e “la terra negra”, però, non sono solo riferite al luogo dove si trova il figlio, ma anche al vuoto dentro l’autore, che è morto, nonostante stia ancora respirando.


Caterina Nonino

2A LSI


Novembre, G. Pascoli, Myricae (Livorno, Giusti 1891).

Gemmea l'aria, il sole così chiaro

che tu ricerchi gli albicocchi in fiore,

e del prunalbo l'odorino amaro

senti nel cuore...


Ma secco è il pruno, e le stecchite piante

di nere trame segnano il sereno,

e vuoto il cielo, e cavo al piè sonante

sembra il terreno.


Silenzio, intorno: solo, alle ventate,

odi lontano, da giardini ed orti,

di foglie un cader fragile. È l'estate

fredda, dei morti.


Novembre di Pascoli, pubblicata nel 1891, ha un tema molto vicino ai temi delle mie poesie interiori, le poesie che in teoria ho creato ma in pratica non vedranno mai la luce al di fuori dei miei muri mentali. Non credo di esserne capace, ma se nascendo mi fosse stato conferito il dono della poesia probabilmente mi ritroverei a scrivere versi come questi.

Vedo un riscontro della dualità della poesia dentro di me; quello che a primo impatto può sembrare un sereno cielo primaverile, con gli odori degli alberi in fiore che si manifestano nei pensieri del lettore, in realtà non lascia spazio ad altro se non al vento freddo e alle piante ormai morte. Ed è proprio in questa illusione di chiarezza e fiori appena sbocciati che scorgo anche la mia figura; o forse è la figura di ogni essere umano? E’ plausibile che non sia io l’unico essere speciale che espone al giudizio altrui solo i pensieri più socialmente accettabili (i pensieri felici, allegri, primaverili) e che vengano sotterrate invece le riflessioni più crude, per far sì che chiunque mi incontri possa solo godere di quella fresca aria che accarezza le verdi foglie e i germogli degli alberi, lasciando che sia io stessa l’unica obbligata ad avere a che fare con il secco pruno e le stecchite piante.

Nonostante sia il Ma della seconda strofa a rompere l’illusione di quel giorno primaverile, è sicuramente nell’ultima strofa, con quel lontano di foglie un cader fragile, che il reale autunno si manifesta; la seconda strofa ci dice che il cielo è vuoto e le piante sono ormai secche, ma la comparsa nel mio occhio mentale di questo paesaggio, non mi mette a disagio, non fa sì che un brivido mi attraversi la schiena. Questo paesaggio, che molti vedono come il riflesso fedele della loro devastazione interiore, a me appare solo per quello che è, la secca natura di novembre che, a differenza della fragile e imprevedibile natura umana, con il passare dei mesi tornerà al suo splendore originario, manifestandosi con i suoi più bei colori non come illusione bensì come semplice realtà; è infatti il silenzio, quel silenzio reso vivo da foglie ormai secche, morte, che evidenzia come l’autunno sia l’estate, fredda, dei morti.

Forse su quel Ma è stato caricato tutto il peso di dover far nascere queste riflessioni nelle menti dei lettori, o forse è solo la mia fantasia che viaggia e che sorpassa confini senza accorgersene e, per errore, libera quei pensieri dalla loro cella, dalla stanza “cose a cui non penserò mai più”.

Elisabetta Rachele Tazzioli

2A LSI



Tra le poesie che abbiamo letto e analizzato in classe, quella che rispecchia qualcosa di me è Novembre di Pascoli.

Questa poesia è composta da tre strofe di endecasillabi e un quinario. Presenta rime alternate seguendo lo schema ABAb CDCd EFEf. I temi sono la natura e la morte, descritti attraverso un’illusione di primavera nel pieno dell’autunno, nel periodo della cosiddetta estate di San Martino, di cui fa parte il Giorno dei Morti. Perciò l’autore contrappone suoni freschi e chiari ad altri duri e secchi che contraddistinguono l’autunno.

L’autore, quando descrive quella che pare una primavera, utilizza termini come ricerchi, sembra, che evidenziano il fatto che l’uomo si illude dell’apparenza. Perché, in realtà, gli alberi sono secchi e senza foglie, il terreno è cavo all’interno e freddo.

Imparando a memoria questi versi, mi è apparsa un’immagine nella mia mente.

Vedo il cielo sereno e il venticello fresco, appare una bambina, con un vestito celeste e un fiore tra i capelli, che sta cercando di prendere un frutto da un albicocco. Alza le punte dei piedi, formando una piega sulla scarpetta, ma non arriva al ramo. Improvvisamente, la giovane fanciulla chiude gli occhi, per un istante, e tutt’intorno si trasforma. Come un blackout e ritorna la luce, in modo diverso. Il cielo è diventato grigio, la nebbia appare; l’albero è spoglio e sulla superficie del terreno sono posate centinaia di foglie morte.

L’essere umano, compresa me, non ha difficoltà nell’illudersi di cose felici per alleviare il dolore.

Anzi, ci illudiamo continuamente, ma solo dopo capiamo che in questo modo, quando ritorniamo alla realtà, la situazione è peggiorata, sia concretamente perché non abbiamo risolto nulla, sia moralmente. Potrebbe sembrare che pensando al futuro ci poniamo un obiettivo da raggiungere, ma quando qualcosa è così lontano e noi siamo moralmente instabili, avviene l’esatto opposto.

Capiamo allora che l’estate di San Martino è solo un sogno e la primavera tarderà ad arrivare.

Non possiamo fare niente, pensiamo, e questo ostacolo istintivamente ci porta a cercare una soluzione, potremmo iniziare ad apprezzare l’autunno, ogni singolo momento e dettaglio che questa stagione può darci. Sembra facile, potreste dire, e concordo anch’io. Ma c’è qualcosa nella nostra mente che ci rende vigliacchi, forse immaturi, ci impedisce di apprezzare il momento, di goderselo, di cogliere l’attimo, come si suol dire.

Se anche tu non trovi uno scopo da raggiungere o esso è solamente troppo distante dalle tue capacità ricorda che di foglie un cader fragile è la vita. Prima o poi essa termina e con un’onda rapida e immensa i rimpianti ti annegheranno se non impari a vivere.


Matilde Bogana

2A LSI

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