La prima guerra cecena iniziò nel 1994 e venne combattuta tra Russia e Cecenia.
Già durante il regno di Pietro il Grande, agli inizi del 1700, la Russia invase la Cecenia e, dopo moltissimi scontri, quest'ultima venne annessa ufficialmente all’impero russo. Successivamente, nel 1922 venne incorporata nell’URSS e con essa anche il Daghestan e l’Inguscezia. Nel 1991 l’Unione Sovietica si sciolse e la Russia diventò uno Stato indipendente, ma perse quasi tutte le sue forze militari ed economiche. La Cecenia ne approfittò e dopo una logorante guerra ne uscì vincitrice, dichiarando così, nel 1996, l’indipendenza cecena dalla Russia. I russi però non si accontentarono e già tra il 1997 e il 1998 tornarono all’attacco.
È qui che entra in gioco Anna Politkovskaja.
Anna Politkovskaja (New York 1958 - Mosca 2006) fu una delle più importanti giornaliste della storia. Si laureò in Giornalismo all’Università di Mosca e iniziò a lavorare con diversi giornali, tra cui l’ “Obscaja”, che, nel 1998 la inviò per la prima volta in Cecenia per intervistare il presidente Mashkadov. L’anno successivo iniziò a collaborare con “Novaja Gazeta”, un giornale che pubblicava notizie scottanti sulla Cecenia e su altri stati, criticando costantemente il dominio del presidente russo Putin e altri politici locali. Anna andò spesso in Cecenia come inviata speciale del giornale e si prese molto a cuore la situazione che lo Stato stava vivendo: sosteneva le famiglie, documentava i massacri civili, visitava ospedali e denunciava apertamente la politica russa. Nel 2004 mentre la giornalista si stava recando a Beslan, dove molti bambini erano tenuti in ostaggio dalle guerriglie cecene, in aereo si sentì male, perse conoscenza e fu costretta a rientrare. Probabilmente qualcuno aveva tentato di avvelenarla. “Certe volte le persone pagano con la vita il fatto di dire ad alta voce ciò che pensano” disse la Politkovskaja nel 2005 ad una conferenza sulla libertà a Vienna. Con questa frase Anna fece capire al mondo che era al corrente di rischiare la sua vita denunciando il governo russo, ma per lei la Verità, quella con la v maiuscola, era più importante della sua vita.
Il 7 ottobre del 2006 Anna Politkovskaja venne uccisa nell’ascensore di casa con quattro colpi di pistola. Al suo funerale parteciparono moltissime persone, ma nessun rappresentante del governo russo. Anna credeva molto in quello che stava facendo e aveva una fortissima determinazione. Le sue parole colpivano tutti: amava usare un linguaggio schietto e chiaro, riuscendo a far rivivere l’evento raccontato a chiunque leggesse un suo articolo.
L’obiettivo della giornalista era infatti quello di essere esauriente, cercando soprattutto di suscitare un risveglio di coscienza nei suoi lettori rendendoli partecipi dell’accaduto, descrivendo nei minimi dettagli la scena.
“Chi si sente nel giusto non ha bisogno dell’anonimato”, disse Anna mentre spiegava il perché firmasse sempre i propri lavori.
Sono ormai passati quindici anni dall’assassinio della giornalista.
Parlare di Anna Politkovskaja in Russia è ancora oggi complicato, ma tutto il suo lavoro
non è stato vano. Molti giornalisti, fra cui Dmitri Muratov, il Direttore del giornale per cui Anna lavorava, hanno continuato a denunciare il governo russo e ogni anno, i primi di agosto, si celebra il compleanno della giornalista con diverse iniziative quali flash mob, suonando i suoi pezzi musicali preferiti e scrivendo un po’ dappertutto e un po’ dove capita il suo nome. Ora Anna è diventata il simbolo del coraggio e della lotta per la libertà di opinione.
La giornalista si è sacrificata per farci aprire gli occhi su quello che stava succedendo, e sta succedendo, oggi in Russia, per svelarci una verità nascosta e, molto spesso, soffocata nel sangue: arresti di giornalisti e oppositori, censura di Internet, divieti per i media indipendenti e aggressioni violente ai militanti pacifici sono ormai all’ordine del giorno.
Il coraggio giornalistico purtroppo si paga caro.
Sofia Sartori
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